MARVELIT PRESENT

 

Ragno Nero #17

 

Cacciatori #3

 

Di Yuri N. A. Lucia

 

 

Il primo a muoversi fu l’Uomo Ragno. I due vigilantes, Armada e Bestiario, rimasero allibiti. Tutto quello che sapevano dell’arrampicamuri andava in contrasto con il suo comportamento. Questi scattò con l’accellerazione di una moto sportiva, puntando su bestiario i cui sensori di movimento contenuti nell’armatura, mandarono un impulso alla coda della defunta Scorpia che si posizionò a difesa del nuovo proprietario.

Ragno Nero superò con un balzo l’Uomo Ragno e si dette lo slancio usandone le spalle come un trampolino. Troppo tardi Bestiario capì che quello del tessiragnatele non era un vero attacco ma solo un diversivo. Ragno Nero piombò su di lui e il computer interno non riuscì a mettere in atto alcuna manovra evasiva. I pugni dell’oscuro vigilante si abbatterono come un possente maglio sul suo elmetto, rinforzato dallo speciale derma sintetico ottenuto analizzando i campioni di quello che ricopriva da anni il super criminale Rhino. Armada tentò di soccorrere il fratello ma l’Uomo Ragno, che aveva continuato la sua corsa, dopo aver superato i corpi riversi di Artic e di No-Saint, lo placcò, provocandogli una violenta compressione del fegato, dell’intestino e dello stomaco nonostante le protezioni che lo rivestivano. Sputò sangue all’interno dell’elmo e fu scaraventato fuori della villetta dove, poco prima, avevano sorpreso la squadra di criminali con un attacco improvviso.

Attraversò l’aria per diversi metri, finendo con la schiena contro un vecchio acero la cui corteccia andò in pezzi.

 

Bestiario fece scattare uno dei quattro tentacoli che, come un serpente, tentarono di arrivare a mordere con le pinze meccaniche il cuore di Ragno Nero. Aveva voluto sorprenderlo con un trucco simile a quello che lui, insieme all’Uomo Ragno, aveva usato poco prima ma invano. Quando si lanciò indietro, eseguendo una stretta giravolta nell’aria, non atterrò nella trappola che Bestiario aveva preparato con il tentacolo che aveva fatto scivolare lungo il pavimento ma rimase attaccato per pochi istanti al soffitto.

“Avevo sentito dire che in città c’erano due Uomini Ragno adesso. Capisco che i nostri metodi non vi vadano a genio ma se mi dai il tempo di spiegar…”

Kaine, il Ragno Nero, era evidentemente poco disposto a farsi distrarre dalle chiacchiere dell’altro. Non aveva avuto bisogno del suo senso di ragno per capire che la manovra di prima era volta a farlo cadere in una trappola. Era stato lui ad insegnarla al suo allievo. Ora ne era completamente certo: era il volto di Darren quello dietro alla maschera a specchio che lo fissava priva di qualsiasi espressione; era lì, tornato dal suo passato e divenuto ciò che era proprio per colpa dei suoi insegnamenti.

Un altro tentacolo afferrò quanto rimaneva del frigo bar e glielo scagliò contro. Kaine lo evitò semplicemente svuotandosi  sul fianco destro. Il mobile gli passò accanto senza nemmeno sfiorarlo e subito lui ribatté lanciando una serie di piccole sfere di ragnatela che si indurirono all’aria, prendendo la consistenza del marmo. Bestiario arretrò, sospinto da quella pressione. Sentì la copertura della sua armatura scricchiolare pericolosamente. L’uomo ragno vestito di nero lo stava attaccando senza lasciargli tregua, con lucida ferocia. Si sentiva perso. Tutto l’allenamento, tutto l’addestramento di quegli anni, i sacrifici, le rinunce, parevano aver perso improvvisamente significato. NO! Proruppe improvvisamente in un disperato urlo di disappunto. Non sarebbe finita in quel modo. C’era un unico sistema di affrontare qualcuno che era tanto più forte e agile di lui.

Gli corse contro, portando il combattimento sul corpo a corpo, in modo da rendere i suoi movimenti limitati e poter avere a tiro tutti i punti vitali. Mirò alla gola, agli occhi, all’inguine, sotto le ascelle, sulle ginocchia usando i pugni, i calci e i tentacoli. L’eso armatura di Grizzly gli forniva quel tanto di forza che bastava e le sue conoscenze di combattente contribuivano a diminuire il divario. Tuttavia aveva capito che lo scontro non sarebbe stato semplice: il Ragno Nero non si era ritirato, non aveva indietreggiato ma aveva accettato il confronto, rimanendo sul posto; un vero combattimento non è mai qualcosa che dura troppo a lungo ma si consuma nello spazio di poche, brevissime battute. I loro arti si mossero l’uno contro l’altro, ma quelli del ragno, anche se in minoranza rispetto a quelli di Bestiario, furono più rapidi. Nei primi due secondi fu come uno scontro tra schermitori: alcune stoccate che servirono soprattutto a saggiare la forza e la velocità dell’atro; tuttavia le braccia di Ragno Nero, come due sensori, trovarono un vuoto nel attacco/difesa di Bestiario e vi si insinuarono. Saltarono via alcuni rinforzi montati sull’armatura e un giunto che teneva fermo uno dei tentacoli si spaccò sotto l’effetto di un violento, improvviso calcio del suo avversario.

Sapeva che sarebbe andata così, ne era quasi completamente sicuro ma era l’unico modo che aveva per farlo avvicinare abbastanza da tentare quel ultimo, disperato stratagemma: colpì con un pugno micidiale come una fucilata, diretto al volto ma Ragno Nero, ancora una volta, lo scansò solo che stavolta, un istante dopo aver superato la sua testa, piegò il gomito per colpire appena un dito sotto il naso, in quello spazio che stava tra la base e il labbro superiore.

Sgranò gli occhi quando si ritrovò con il braccio bloccato.

Il suo corpo fu scosso da un tremore di incredulità, ed il sudore cominciò a colare lungo la schiena.

Con voce rotta dall’emozione e dalla sorpresa disse:

“Kaine…”.

 

 

Hell’s Kitchen, N.Y.C. – Lunedì ore 2.00 a.m.

 

 

Uno shuriken fendette l’aria e s’andò a conficcare nel braccio di uno dei senza tetto che, la notte, cercava riparo nei pressi della vecchia chiesa abbandonata dell’Immacolata Concezione. La punta di freddo acciaio penetrò con vigore, facendosi largo improvvisamente tra le carni indifese, lacerando l’arteria brachiale. Quello emise un grido strozzato e, sbilanciatosi, cadde all’indietro, battendo violentemente la schiena contro un lampione. Finì riverso e senza sensi sullo sporco marciapiedi, quasi completamente ricoperto di vecchi fogli di giornale ingialliti dal tempo e da escrementi secchi di cani randagi. La piccola torma di diseredati e sbandati se ne fuggì via, terrorizzata e per nulla contenta di essere finita in mezzo a quello scontro tra spiriti. Questo parevano ai loro occhi i due contendenti: spiriti vomitati dal buio; Kuroi Neko riuscì a finire sul tetto antistante al palazzo sul quale poco prima si trovava; lo sforzo era stato mostruoso ed atterrò appallottolandosi su sé stesso. Rotolò fino a colpire un comignolo di latta che si piegò per effetto della botta. Akai Kuni lo raggiunse in pochi secondi, preoccupato per il panico che aveva seminato giù nelle strade. A lui non interessava nulla di quel “uomo sciolto” colpito dalla sua arma. Sapeva che quella zona di New York City era un protettorato di Devil e Devil era stato addestrato da un uomo appartenente alla Mano, e per la Mano Devil era stato più che una fastidiosa spina. Non era preparato per affrontarlo, né tanto meno vedeva la necessità di farlo. Suo fratello era stato furbo. Durante l’inseguimento aveva tentato di disorientarlo in tutti i modi per non fargli capire dove lo stava portando, intenzionato probabilmente a servirsi dell’aiuto del vigilante. Tuttavia, la fortuna non era stata dalla sua e la città, solitamente talmente piena di vigilantes ed altri grotteschi esseri da sembrare un irreale incubo infantile, sembrava deserta e completamente priva della sua costante, policroma popolazione. C’erano diversi scontri in atto tra piccole bande criminali, tutte fomentate da un uomo mascherato che si faceva chiamare il Demone. Probabilmente anche l’uomo senza paura era intento a tamponare la violenza della guerra che si stava svolgendo, strascico della mancata conquista di New York da parte dei Jong che, con i (il) loro sconsiderato e violento intervento, ne avevano alterato i decennali equilibri malavitosi.

Non poteva e non voleva approfittare troppo di quella fortuna inattesa e dunque non indugiò oltre. Estrasse dal suo fodero un corto pugnale con l’impugnatura di legno di ciliegio, priva di qualsiasi incisione, e una lama d’acciaio veloce, con un alto angolo di taglio. Si spinse in avanti rapido, pronto a colpire alla milza il fratello ma questi, improvviso, lo centrò in volto con un calcio.

Se Kuroi Neko non fosse stato così indebolito, gli avrebbe staccato la testa con quel colpo.

Neko strinse i denti dopo aver sputato sangue, e usò lo slancio per rimettersi in piedi. Aveva sprecato un’occasione che difficilmente si sarebbe ripresentata.

Mio piccolo, agguerrito Taro-Chan,” lo canzonò crudele Akai Kuni, i cui occhi brillavano di selvaggia bramosia per l’imminente omicidio il cui acre gusto già gli riempiva la bocca,” sempre combattivo, sempre stupido. Avresti dovuto scomparire per sempre, quando il nostro venerabile Signore ti allontanò dalla sua casa. Ti era stato ingiunto di abbandonare le pratiche nunjutsu della scuola Sasuke – Hyamada. Invece non solo hai disobbedito ad un ordine impartito da Yu Tora, ma hai anche insultato la sua generosità nel risparmiare la tua miserabile vita e hai messo i tuoi talenti al soldo di gaijin senza onore.” Puntò l’indice in un gesto di sprezzante accusa nei suoi confronti e con voce severa gli disse:” se fossi stato un vero uomo, se fossi stato minimamente orgoglioso del nobile sangue che ti scorreva nelle vene, avresti fatto hara kiri davanti al tuo signore, per espiare le tue colpe e dimostrare in modo soddisfacente il tuo rammarico e la tua costernazione per aver portato il disonore sul tuo casato! Invece sei solo un vigliacco! Lo sei sempre stato e vigliaccamente hai scelto di continuare a vivere. Dovevi sparire, si, dovevi sparire mio piccolo, codardo fratello. Dovevi sparire in quel nulla che è l’unica casa di cui sei degno ed invece hai voluto far parlare di te, sfidando così il volere di Yu Tora!

Gli applausi di Neko si spensero dopo pochi secondi. Era lì, con il vuoto dietro di sé ed un sorriso di sfida sul bel volto, su cui un rivolo di sangue macchiava la candida guancia.

Ti confesso, o mio caro e loquace fratello, che di te ho sempre ammirato l’innata capacità di intrattenere un pubblico. Le tue capacità come oratore sono degne di lode e le tue orazioni, sono talmente belle da essere dolci e struggenti come un luminoso giorno d’autunno, e brucianti come una gelata durante un freddo giorno d’inverno. Non mi meraviglio che il vecchio Yu Tora abbia sempre ignorato le tue malefatte e, soprattutto, le tue reali ambizioni. Come la volpe del cui nome fai fregio, sei talmente bravo a celare le tue vere fattezze sotto elaborati camuffamenti che forse, persino tu, in parte, credi alle tue belle bugie. Risparmiami la tua retorica, sangue del mio sangue, vile traditore dei tuoi affetti. Tu che avresti venduto persino nostra madre, se ancora fosse stata in vita, per raggiungere i tuoi scopi. La sua morte, dopo aver visto quanto abbietto sai essere e quanto nero è divenuto il tuo animo, non la rimpiango più: di quanto dolore saresti stato a lei cagione, se avesse potuto vedere quale viscida serpe ha generato; sei sempre riuscito ad incantare tutti con le tue belle e vuote chiacchiere e con il tuo atteggiamento da zelante santo ma non me, no. La tua vera natura ho imparato a conoscere da subito e sono stato testimone della tua scelleratezza. Oggi sei qui per portare a termine quello che non sei riuscito a fare due anni fa. Dunque va avanti fino in fondo ma risparmiami le tue finte prediche, lurido assassino!

Il volto di Akai Kuni era serio. Nessuna emozione pareva trasparire da esso. Osservava il fratello con occhi divenuti di ghiaccio.

Sia. Vuoi che parli sinceramente? Sei sempre stato un totale imbecille. Continui a pensare ancora adesso, che sia stato io a metterti contro tutti quanti ma ti sbagli. Oh, certo, avrei voluto farlo io, naturalmente ma invece hai fatto tutto da solo. Tu, con le tue sconsideratezze ed i tuoi atteggiamenti arroganti, tu e solo tu sei stato la causa delle disgrazie che ti hanno impietosamente colpito, una dopo l’altra e, anche adesso, sei la causa della fine della tua vita. Se fossi veramente sparito, nemmeno io ti avrei più cercato. Se fossi veramente finito nell’oblio, saresti stato lasciato in pace, ed invece non hai saputo resistere alla tua stessa natura. Oh, no! Non incolpare me. Biasima solo te stesso, Taro-chan.

 

 

 

Manhattan, appartamento di Cindy Delgado– Lunedì, ore 9.00 p.m.

 

Era bella, sorprendentemente bella senza il trucco. C’era una sorta di deliziosa innocenza nei suoi lineamenti che strideva terribilmente con l’immagine di donna dura e spregiudicata che si era costruita durante tutti quegli anni. Sembrava così fragile ed indifesa nella sua vasca da bagno ultimo modello, coperta in gran parte dalla schiuma. Sembrava indifesa e lo era stata veramente per il suo assassino. Lui la osservava, trattenendo a stento la frustrazione. Aveva capito subito che qualcosa non andava quando non  si era presentata al loro appuntamento delle 7 e non aveva risposto a nessuna delle sue chiamate. Cindy era morta, uccisa da qualcuno ingaggiato per eliminare quello che era divenuto un fastidioso problema. Ma per chi? Chi aveva disturbato Cindy con le sue attività? Le stesse persone che aveva infastidito Malone o qualcun altro? Un nuovo giocatore in quella partita fatta di morti che continuavano ad aumentare di giorno in giorno.

“Che cosa sapevi? Quali segreti ti portavi dentro mia bella e piccola Cindy?” Le chiese tristemente.

Freedland si teneva a rispettosa distanza ma il suo sguardo era eloquente. “Non è bene rimanere qui troppo a lungo, signore.” Aveva detto nel suo solito tono rispettoso e preoccupato. Non poteva dargli torto ma non poteva nemmeno abbandonare subito quel luogo. Lei era morta e molto probabilmente per colpa sua, così come Kirkpatrick. Non poteva essere una coincidenza. Sicuramente il loro destino era segnato da tempo ma se erano stati uccisi proprio in quel momento era perché qualcuno si doveva essere accorto che erano stati avvicinati.

Che stesero tenendo d’occhio anche lui?

“Voglio che tu faccia appello ad ogni contatto che abbiamo qui. Voglio che tu setacci ogni fetido (bassofondo di questa fogna luccicante e voglio sapere se qualcuno ci sta seguendo, chi è e perché.” Disse rompendo ancora una volta il pesante silenzio calato in quella stanza.

“Signore, mi ci vorrò un po’ di tempo. Almeno quattro o cinque giorni per esaudire la sua richiesta.”

“Sta bene. Però non voglio che il consiglio sappia niente.”

“Come dite?” Chiese incredulo Freedland.

“Hai capito bene. Ci siamo mossi in modo cauto. Ci siamo guardati in torno con molta circospezione eppure è successo questo. Sospettavamo che solo Maurice avesse tradito ed invece potrebbe aver un appoggio proprio in seno alla famiglia.”

“Ma signore! Vi prego, rendetevi conto di quanto state dicendo…”

“Io mi rendo perfettamente conto di quello che sto dicendo. Mi rendo anche conto di quanto sta succedendo. Abbiamo un ultimo contatto e non voglio che muoia come è successo per lei. Da questo momento in poi, nessun contatto con la Casa. Me ne assumo ogni responsabilità. Se non ve la sentite di lavorare in questo modo, siete libero di andarvene e farmi rapporto. Non lo considererò una cosa personale, né farò niente per ostacolarvi.”

Arthur Freedland rimase qualche istante in silenzio, indeciso su cosa fare. Era combattuto tra l’esigenza di rimanere fedele alla Famiglia e rimanere fedele al Signorino. Chiuse un istante gli occhi per cercare la risposta dentro di sé e quando gli riaprì, disse con decisione:

“Sono con voi, come sempre.”

“Molto bene Freedland. Vi ringrazio, so quanto questo vi sia costato.”

La stanza da bagno era una piccola bomboniera rosa, carica di oggettini di cristallo dal gusto delizioso e ricercato. Ovunque c’era un buon profumo di pulito e lavanda. Una fragranza semplice, insolitamente per una donna che in vita era stata tanto sofisticata come Cindy.

“Cosa altro non so di te, mon cher?” Chiese con vibrante rimpianto nella sua voce.

 

 

10th street, Richmond, N.Y.C. – Lunedì ore 2.00

 

 

La casa era completamente pervasa dal buon odore di croissant ripieni, a tal punto che Felicia pensò per un attimo di trovarsi da un fornaio e non da Scoarch.

Il ragazzo sembrava essersi appena alzato. Non si era pettinato e doveva aver indossato le prime cose che gli erano capitate a tiro.

“Devi proprio continuare a squadrarmi così?”

Felicia rimase sorpresa. Era stato voltato per tutto il tragitto dalla porta alla cantina e lei era sicura di essersi trattenuta quando lui aveva aperto la porta. Che fosse telepatico ?.

Lui sorrise compiaciuto per il suo silenzio. L’aveva sicuramente impressionata.

“Ho una piccola cavo camera inserita tra le fibre della mia t-shirt. Davanti invece ho un h.u.b. che proietta l’immagine a qualche centimetro dai miei occhi. Non è ad alta definizione ed è in bianco e nero, però per essere un prototipo non è male.”

“Hai mai pensato di commercializzare le tue invenzioni?” Chiese ammirata la Gatta Nera.

“Sono cinque anni che lavoro a questo scherzetto. Sono sicuro che qualcun altro ci deve essere arrivato. Viviamo in un mondo pieno di super tecnologia da fantascienza. Il problema sono i costi di produzione. Non potrei mai metterla su larga produzione senza avere milioni e milioni di dollari da investire, senza contare che è un prototipo ancora pieno di difetti. Un vero peccato. Sarebbe stato utile soprattutto per le donne. Sono sicuro che molti stupri sarebbero evitati.” Disse con grande tristezza nella voce.

 

Varcarono la soglia che dava l’accesso alla sala esposizione di Scorch. Lui ci teneva a far colpo sui suoi acquirenti.

C’erano manichino che indossavano alcune delle creazioni del giovane scienziato.

“Ti piacciono? I disegni sono in parte opera mia. Non me la cavo troppo male nemmeno come stilista, nevvero?”

Felicia era sorpresa: “Ma quelli?…” Disse indicando un gruppo di costumi.

“Devil, Occhio di Falco, Capitan America, U.S. Agent, Ciclope e Wolverine degli X-Men. Si, sono alcuni modelli ispirati a loro. Nessuno mi vieta di fare un po’ di fan-art. Non li ho creati a scopo di lucro e se chi me li ha ispirati me li chiedesse, glieli darei senza nessun problema. Ho anche un paio di costumi per Ercole, uno per la Vedeva Nera, uno per Giant Man e Wasp e ne ho anche uno per il tuo amico Uomo Ragno se proprio lo vuoi sapere.”

“E per me? Non hai fatto niente ispirandomi a me?” Chiese divertita.

“No. Il tuo costume va bene così com’è.””

“Ed i loro?”

“Anche i loro ma avevano bisogno di un’aggiornata.”

La Gatta catturò con la coda dell’occhio quanti più particolari poteva, proprio come Kaine gli aveva chiesto. Lasciò che il suo anfitrione continuasse ad accompagnarla nel suo giro.

 

Queens – Lunedì ore 9.00 a.m.

 

 

Lanciò la bottiglia contro lo specchio mandandolo in frantumi. Una pioggia luccicante si riverso sul pavimento di legno, mandando sinistri bagliori argentei che riflettevano i raggi del Sole che erano riusciti ad insinuarsi tra le imposte.

Guardò un pezzo della sua immagine che rimaneva su di pezzo rimasto attaccato all’anta dell’armadio.

“Le cose non vanno come avevo sperato.” Si lamentò con rabbia a stento trattenuta.

Chester arretrò spaventato. Che fosse definitivamente impazzito quell’uomo che da oltre un anno lo teneva in pugno con promesse, minacce e ricatti? Lo aveva sempre temuto, non si era mai fidato di lui ma adesso si sentiva soprafatto dal senso di pericolo che gli procurava la sua detestabile figura. Un tetro spettro tra le ombre di quella camera. Così gli appariva in quel momento l’uomo che si faceva chiamare il Demone.

“Armada e Bestiario mi hanno tradito. Gli eroi non hanno voluto recepire il mio messaggio. Non sono riuscito a scoprire a chi Malone ha venduto quanto trafugato ai Thannhill. Tutti sono contro di me. Tutti. Piagnucolò infantile. Si voltò, lentamente e puntando l’indice con fare accusatore.Anche tu! Si, anche tu viscido traditore! Anche tu, se potessi, mi venderesti subito ai miei nemici! Dopo tutto quello che ho fatto per te! DOPO AVERTI TIRATO FUORI DALLA MERDA!!!” Urlò inferocito quelle parole e Chester si appiattì al muro. Non se la cavava male nel combattimento ma sapeva di non aver speranza contro un assassino come il Demone. Non aveva neanche un’arma con sé. Lui era sempre attento che non ne portasse.

“Ti sbagli! Io non ti ho tradito! Ho fatto sempre tutto quello che mi hai chiesto, anche quando questo significava sottopormi a pesanti privazioni! Non è colpa mia se le cose non vanno come hai pianificato tu!” Rimase sorpreso per la sua reazione. Gli aveva parlato con risentimento, rigettandogli contro le accuse che gli erano state mosse con lo stesso sdegno di un amante deluso. Si passò una mano tra i capelli e sentì la pelle sudata sotto i polpastrelli. Stava diventando pazzo anche lui. Si, il Demone lo aveva coinvolto irrimediabilmente nella sua follia.

“Questo è quello che pensi?” Chiese l’altro con calma improvvisa.

“Questo è        quello che mi hai fatto!” Ribatté sprezzante Chester.

“Vattene.”

Incredulo, temendo un qualche crudele scherzo: “Cosa hai detto?”

“Vattene. Semplicemente. Non ti farò nulla. Vattene via. Vattene lontano da me. Lasciami solo. Non temere, non ti farò nulla. Tu non parlerai di me ai cosiddetti eroi e non lo farai perché sai che se mai dovessi rincontrarti, ti sottoporrei a torture che nemmeno puoi immaginare. Vattene ora.”

Chester non poteva crederci. Era libero? Era dunque finita la sua prigionia? Quello era l’epilogo che aveva lungamente atteso?

Fece un passo verso la porta, senza distogliere lo sguardo dal Demone che invece teneva gli occhi al pavimento, dimentico di tutto e tutti, perso nel suo sconforto.

 

Chester uscì dalla casa quasi correndo. Si costrinse a rallentare temendo che una pattuglia di quartiere, insospettita dal suo comportamento, potesse fermarlo e fargli domande. Non voleva che accadesse. Non voleva parlare con nessuno di quanto gli era successo. Non voleva saperne più niente. Che si uccidesse, il Demone, insieme agli altri fenomeni da baraccone di quella folle città. Non c’era nessuno per le strade. Era una mattina calda e soleggiata e gli venne naturale scoppiare in una risata liberatoria mentre rovesciava il capo all’indietro ed allargava le braccia. Al diavolo la prudenza, pensò. Voleva lasciare quel posto. Voleva cambiare città e vita. Voleva perdersi fuori, nel mondo.

Chester voleva molte cose. Tante.

“Ciao.”

Si voltò. Era spaventato, per un istante credette di trovarsi di fronte quella maschera grottesca. Era un volto gentile e sorridente quello che incrociò.

“Ciao.” Rispose un po’ rasserenato.

 

Il Demone se ne stava seduto sul pavimento a gambe incrociate.

“Cosa è che non ha funzionato nel mio piano?” Si chiese tristemente.

“Hai scelto male i tuoi collaboratori.”

Il Demone scattò rapido come un cobra, costringendo l’intruso con le spalle al muro con tale violenza che per un istante il tramezzo parve dover cedere rovinosamente.

Era un uomo sulla trentina, capelli lunghi fino alle spalle, castano chiaro sembrava, anche se con la poca luce era difficile stabilirlo, occhi chiari, ma anche per questi era difficile dirlo con certezza, leggermente più basso della norma, fisico normale, lineamenti regolari, caucasici.

“Non te lo chiederò due volte. Chi sei? Come mi hai trovato? Che vuoi?”

L’altro non aveva opposto nessuna resistenza, né sembrava essere spaventato dal braccio premuto contro la sua gola. Continuava a sorridere pacato e con studiata flemma e voce neutra rispose:

“Mi sono interessato a te da quando hai cominciato a fomentare la guerra tra bande. I giamaicani avevano messo una taglia su di te ed ho seguito un detective incaricato di scoprire quale fosse il tuo nascondiglio. Hai fatto l’errore di comprare parte delle tue attrezzature da un fornitore della mala. Il falso nome che hai fatto usare al tuo ex amico non è servito a niente. L’investigatore aveva agganciato lui ed io avevo agganciato l’investigatore.”

“E poi?”

“Adesso non hai più problemi.”

“Che vuoi dire?”

“L’investigatore non è più un problema. Il tuo ex compagno idem.”

“Non hai ancora risposto alla domanda: chi sei?”

“Un amico.”

“Vago, troppo per i miei gusti e poi io non ho amici.”

“Sbagliato. Proprio per questo le cose non sono andate come volevi. Non hai pensato a coltivare le giuste amicizie. Se vuoi uccidermi perché non ti fidi, ti consiglio di non tirarla troppo per le lunghe, altrimenti, puoi starmi a sentire. Abbiamo un interesse comune.”

“Quale?”

“La giustizia.”

Il Demone allentò momentaneamente la pressione. Era incuriosito da quell’uomo e poi, tutto sommato, Chester doveva essere rimpiazzato in qualche modo.

 

 

Contea di Westchester nello scorso numero, Stato di N.Y. – Martedì ore 3.00 a.m 31 km da New York City, Stato di N.Y. – Martedì ore 3.00 a.m.

 

“Ciao, Darren.” Fu la semplice risposta di Ragno Nero. Non aveva nemmeno provato a nascondergli la sua identità, sapeva che a quel punto sarebbe stato futile.

“Tu?” La voce del ragazzo era rotta dall’emozione e dalla paura.

“Finalmente ci ritroviamo e in questo hai avuto ragione tu: è successo in modo del tutto inatteso.” Disse Kaine ricordando l’ultima conversazione che ebbero.

L’apprendista e il maestro si fronteggiavano, il primo con il piede attaccato a quello dell’altro per poterne registrare i movimenti, il secondo con il pugno dell’avversario bloccato nel cavo del suo braccio.

“Tu sei l’Uomo Ragno?” Chiese incredulo Darren dopo aver vinto l’iniziale stupore.

“In un certo senso. Tuttavia siamo in due e siccome quello che sta pestando il tuo amico ha la precedenza io ho optato per Ragno Nero. Meglio di Uomo Ragno bis, non credi?”

“Sei sempre lo stesso, maestro, anche nei momenti più drammatici ti piace scherzare.” Sorrise Darren.

“Questo momento diventerà drammatico solo se tu lo vorrai.”

“Sai bene che non mi arrenderò e non recederò dal mio proposito: questa gente deve morire; quello che non capisco è perché ora stai cercando di fermarmi, visto che sei stato ad insegnarmi a perseguire con tutte le forze il mio scopo. Dovresti unirti a me, non combattermi.”

“Un tempo sarebbe successo ma ora quell’uomo non c’è più. Mi rendo conto però che le sue azioni hanno avuto gravi conseguenze. Se sei qui è colpa mia. Ti do la mia parola: se ti arrendi, sono disposto a lasciarti andare; non ti inseguirò, non rivelerò la tua identità a nessuno, nemmeno all’Uomo Ragno e non ti costringerò a consegnarti alla giustizia. Ho visto la tua ragazza, ricordi? Le ho salvato la vita e ho visto come la guardavi. Non dovresti fare questo. Non dovresti macchiare le tue mani di sangue. Dovresti correre da lei e poi, insieme, scappare via da tutto questo e lasciartelo alle spalle.”

“Grazie, molto generoso,fece piccato Darren,ma dimentichi una cosa: la via più facile, quella più breve, è quella che maggiormente si discosta dai tuoi obbiettivi.”

Kaine si maledì. Ricordò con chiarezza il gelido mattino in cui, nei pressi di Albuquerque, durante uno dei lunghi inseguimenti per catturare Ben, gli disse quelle parole. Il ragazzo sembrava esausto, sul punto di crollare e per un attimo pensò che forse sarebbe stato meglio così, che non aveva la stoffa del cacciatore. Quando però vide la luce nei suoi occhi, quando lo vide lottare per non venire sopraffatto dalla stanchezza, dalla privazioni decise di aiutarlo, di incoraggiarlo. Gli disse quelle parole perché voleva aiutarlo nella sua missione, qualunque essa fosse stata ed ora, finalmente, lo sapeva.

Aveva fatto di lui un assassino ed era per questo che era pronto, sinceramente, ad aiutarlo. Anche se questo avrebbe significato fare qualcosa di moralmente discutibile come rinunciare a catturarlo.

“Riconosco le mie parole, Darren, così come le mie colpe in questa storia. Ti prego, ascoltami bene: al tempo ero malato; non parlo solo delle cicatrici che avevo sul volto ma soprattutto per quelle che deturpavano la mia mente. La mia mente, Darren, era distorta, ferita, deviata. Non ero completamente padrone di me perché ero malato. La malattia mi stava divorando da dentro e non riuscivo a contrastarla. Ora sono guarito e sto cercando di redimermi.”

“E per farlo vuoi salvare me?” Chiese sprezzante il giovane.

“Per farlo, devo pagare ogni mio peccato. Ogni singolo atto di male o crudeltà compiuto. Tu sei l’unica cosa buona che avessi mai fatto. Ti avevo fatto divenire mio apprendista, ti ho dato il mio affetto, per me sei stato più di un semplice allievo e questo anche tu dovresti riconoscerlo. Tuttavia ti ho addestrato per portare avanti una missione che dannerà la tua anima. Non voglio redimere me dissuadendoti dal tuo proposito, non voglio che tu debba passare quello che sto passando io a causa di esso.”

Darren rimase immobile, silenzioso. Meditava su quanto il suo mentore gli aveva appena detto. Dentro di lui, negli ultimi tempi, era sorto il dubbio, la certezza assoluta e incrollabile stava venendo meno.

Un urlo improvviso. Daryl da fuori chiedeva aiuto. Fu un istante, un solo istante e poi non ebbe dubbi. Tentò di fulminare Kaine con una testata mirata al setto nasale. Questi fu costretto a spostarsi di lato, lasciando l’altro libero di scattare in avanti.

“RITIRATA!” Gridò nel microfono del suo casco dopo aver premuto un contatto.

 

Peter e Kaine osservavano la desolante scena.

“Alcuni di loro sono morti. Altri gravemente feriti.” Fece il primo che seguiva il bagliore delle sirene allontanarsi. Le ambulanze e le auto della polizia erano giunte presto, non abbastanza per salvare tutti.

“Erano degli assassini…” Fu il duro commento di Kaine che si spense nel freddo vento che si era alzato da nord.

“Già. Sai che adesso mi fai un po’ paura? Non credo che a parlare sia Abel Fitzpatrick ma Kaine.”

“Scusami. La voce di Kaine era rotta dalla frustrazione e dalla stanchezza. Si portò una mano al volto, quasi a sincerarsi che i lineamenti sotto la maschera fossero ancora i suoi e non nuovamente quelli di un feroce assassino. Non avrei mai dovuto dirlo. Non so cosa mi sia preso.”

“Non so darti una risposta. Non so nemmeno spiegarmi perché tu non mi abbia detto niente.” Non c’era tono di accusa, né risentimento in quanto aveva detto Peter e questo ferì ancora di più Kaine che non le parole in sé.

“Ho sbagliato ma non ero sicuro che si trattasse di lui.”

“Vedo che ancora non mi vuoi dire il suo nome. Lo stai coprendo.”

“Sono stato io a fargli questo. Ho il dovere di proteggere la sua identità.”

“Anche se ha ucciso tutte quelle persone?”

“Si.”

Peter rimase qualche istante in silenzio, ascoltando il vento fischiare tra i sempre verdi. Socchiuse gli occhi. Tentò di perdersi nella grandezza del bosco, quasi volesse dimenticare quanto accaduto quella notte.

“Va bene.”

“Cosa?” Chiese dubbioso Kaine. Non si sarebbe mai aspettata quella risposta da lui.

“Mi fido di te.”

“Ma io ti ho mentito…”

“Mi hai tenuto nascosto qualcosa perché volevi proteggere una persona che per te è evidentemente importante. Al posto tuo forse avrei fatto lo stesso. Mi spaventa ripensare a Kaine, non ti mentirò. Le parole di prima erano le sue ma le azioni di Ragno Nero sono quelle di Abel e Abel Fitzpatrick, per quanto mi riguarda, è mio fratello. Sei parte della mia famiglia. Lo sarai sempre e per questo ho deciso di credere in te. Ti prego però, in futuro, non dimenticarlo mai e fidati anche tu di me.”

Peter si voltò verso Ragno Nero. Il suo capo era chino e ne venivano dei singhiozzi. Ne era certo, a piangere non era Kaine ma Abel.

 

 

Fine episodio.

 

 

 

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